Quest’estate è uscito in Francia l’ultimo libro di Edgar Morin, Leçons d’un siècle de vie (edizioni Denoël, Mimesis in Italia).
Il pensatore, scrittore, teorico della complessità, ha raccolto in questo volume le lezioni apprese in 100 anni di vita, compiuti quest’anno, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua biografia e le circostanze grazie alle quali è nato il suo celebre ‘metodo’, pubblicato in sei volumi dal 1977 al 2004.
Trovate una recensione del libro sul sito del Complexity Education Project, qui sotto.
In questo post vorremmo portare all’attenzione dei lettori il settimo capitolo, dedicato all’errore e alla sua potenzialità pedagogica. Il “Signor Errore”, come lo chiamava Maria Montessori per riportarlo al centro dell’apprendimento, è oggetto di crescente interesse: in ambito educativo è sempre più accettato come parte del processo di crescita, mentre le aziende richiedono ai candidati di indicare nei loro cv anche gli sbagli più importanti fatti nella propria carriera.
L’errore è naturalmente qualcosa che vorremmo evitare, ma una volta incontrato può agire da prezioso maestro. “Rimpiango dunque i miei errori e non li rimpiango”, scrive Morin, allorquando le conseguenze sanno portare insegnamenti molto più importanti degli errori stessi.
Se penso alla vita come il navigare “in un oceano di incertezze, attraverso qualche isola o arcipelago di certezze dove rifocillarsi”, dice Morin, l’errore si spoglia della sua grave eccezionalità. L’autore racconta come retrospettivamente lo sbaglio, l’incidente, la sfortuna abbiano agito da portatori di conoscenza e siano stati funzionali all’adattamento alla realtà.
In tutto il libro si richiama la necessità di inglobare il fallace nel pensiero contemporaneo, e Morin racconta ai lettori di sottoporre le sue idee a revisioni, come quelle che si fanno alle macchine, ogni dieci anni. E’ ancora valido questo pensiero, questa lettura, questa visione? Solo così potremo avvicinarci alla multidimensionalità del mondo e accettare benevolmente che la conoscenza sia un’arte difficile.
“L’impossibilità di eliminare l’alea da tutto ciò che è umano, l’incertezza dei nostri destini, la necessità di aspettarsi l’inatteso, questa è una delle lezioni maggiori della mia esperienza di vita”.
Al cuore di questo discorso è la parola conoscenza, impensabile se epurata dall’errore. Riconosciuto e accettato in campo scientifico, l’errore sta trovando la sua strada in quello umanistico. Sottostimare l’errore sembra allontanarci dalla fisiologia della conoscenza, “una traduzione seguita da una ricostruzione”. Quando guardiamo quello che accade intorno a noi, scrive Morin, siamo portati a slegare e ridurre, a tirare fuori dal contesto, a non considerare ciò che ci è ignoto, perdendo la complessità degli eventi.
Se non possiamo non sbagliare, come risolvere allora la questione? Morin dà delle indicazioni di metodo, basate sull’idea di problematizzare anche ciò che appare acquisito ed evidente, tre passi nel “gioco ininterrotto dell’errore e della verità”:
contestualizzare ogni oggetto di conoscenza; riconoscere la complessità delle persone, delle situazioni, dei fenomeni; saper distinguere ciò che è autonomo o originale e saper collegare ciò che è connesso e combinato.
Recentemente (19 settembre 2021) Morin ha presenziato al Festival del cinema di Villa Medici a Roma. Alla domanda ‘qual è il futuro del cinema?’ ha risposto, fatte salve le innovazioni tecnologiche, mettendo in evidenza la grande capacità salvifica e solidale della narrazione filmica. Il livello di empatia che si ha per il vagabondo Charlot non conosce uguali – il più delle volte – fuori dalla sala cinematografica, incontrando un vero senzatetto. A me sembra che questi due aspetti, l’accettazione dell’errore e l’accettazione dell’altro, siano strettamente legati, soprattutto in ambito formativo.