Uscendo dalla mostra Poesia e pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la “meravigliosa passione”, allestita presso la Galleria Borghese di Roma, si ha la sensazione di essersi affacciati – oltre che sulle meraviglie pittoriche e sui versi del massimo poeta del Seicento italiano – anche su zone complesse e misteriose della finzione creativa. In particolare, su quel rapporto fra i testi e le opere che nutre da secoli la generazione delle immagini dalle parole e, viceversa, quella delle parole dalle opere. In questa storia che coinvolge i programmi iconografici immaginati da letterati, il linguaggio della critica d’arte e soprattutto l’ecfrasi, cioè la descrizione di un’opera d’arte figurativa in un testo letterario, Giovan Battista Marino (1569-1625) ha un posto speciale.
L’autore delle Rime (1602), dell’Adone (1623), de La Galeria (1619), dimostrò, nella sua vita piena di successi e di insidie, una costante propensione al confronto tra le “arti sorelle”, muovendosi tra “la fascinazione per le immagini viste e il proprio strabordante estro letterario, la capacità straordinaria di creare immagini con le parole, in una competizione che assunse spesso le forme di una sfida”, scrive Andrea Zezza nel catalogo della mostra. Mostra in cui sono accostati con sapienza allestitiva passi di Marino e opere di cui il poeta offre trasposizioni verbali (come Leandro in mare di Rubens o la Maddalena penitente di Tiziano) e che si riallacciano a tematiche e atmosfere della sua poesia, in sintonia con lo spirito del tempo e con gli stessi spazi della Galleria Borghese.
L’esposizione e il ricco catalogo testimoniano dell’impresa centrale della vita di Marino, la sua Galeria: una raccolta di 624 componimenti (madrigali, sonetti, canzoni), dedicati a Pitture e Sculture, che “il poeta immaginava di consegnare alle stampe accompagnati da un corrispettivo apparato iconografico”, spiega Beatrice Tomei:
“La Galeria nasce infatti per essere un libro illustrato, come dimostra il carteggio del poeta stesso il quale, nel tentativo di inseguire l’ambizione di corredare il volume di figure, dal 1613 inizia a commissionare assiduamente disegni di ‘favole antiche’ a pittori suoi amici, la cui traduzione in incisione avrebbe dovuto accompagnare almeno il corpo testuale delle Favole, la prima parte delle Pitture”.
Dalle lettere spedite agli interlocutori, fra cui Ludovico Carracci e Bernardo Castello, la figura di Giovan Battista Marino emerge come quella di un promotore instancabile, che pungola gli amici artisti perché generino le immagini che egli ha in mente, precisando le misure e talvolta il colore del foglio da usare.
A volte, dopo aver suggerito il “suggetto”, lascia libero l’artista di comporre secondo la sua fantasia, spesso si addentra in specifiche (“… ha da essere Marte, che si fa spogliar l’armatura da una ninfa per andarsi a corcar con Venere, la quale ignuda l’apetta in letto”), che riguardano non solo i personaggi, le posture e i dettagli, ma anche eventuali riprese da altre opere preesistenti (“Mercurio ed Apollo, quando si donavano l’un l’altro la lira, ed il caduceo di quel medesimo disegno ch’egli fece al conte di Rovigliasco”) ⌈dall’Antologia di testi in catalogo⌋.
Ne deriva la pratica di un innesco per la creazione di un’immagine che – partendo dalle indicazioni testuali di Marino – va ad attingere nella memoria propria e della propria cerchia, dentro una rete di figure destinate al mescolamento, alle variazioni, alle ibridazioni che tendono spesso a far perdere le tracce dei percorsi.
Ora, facciamo un salto temporale notevole che arriva all’ambito attuale delle ricerche sull’Intelligenza Artificiale, sulle reti neurali e sui programmi di machine learning, ricerche che hanno aperto la strada alla creazione di immagini generate a partire da immensi dataset di riproduzioni usati per allenare il programma a riconoscere, selezionare, mescolare, inventare.
Chi usa alcuni di questi programmi di generazione delle immagini (come Dall-E e Midjourney) sa che il primo passo da compiere è la scrittura di un testo, che in gergo viene definito prompt, così come il sistema è definito Text-to Image (TTI), dal testo all’immagine.
Il ricercatore Mario Verdicchio si è interrogato di recente sulle analogie fra ecfrasi e scrittura dei prompt ⌈Ekphrasis and prompt engineering. A comparison in the era of generative AI, Studi di estetica, anno LII, IV serie, 1/2024⌋, indagandoli come due mezzi testuali usati per stimolare la creazione di immagini mentali. Malgrado la grande distanza fra l’origine retorica e letteraria della pratica dell’ecfrasi e lo sviluppo tecnologico di software di Intelligenza Artificiale, per Verdicchio
esiste un filo conduttore tra l’ekphrasis e l’ingegneria dei Prompt e un’indagine sulle caratteristiche di tale filo conduttore può gettare luce su una serie di aspetti della nostra esperienza di opere testuali e visive, compreso il ruolo della nostra immaginazione, delle nostre emozioni e cosa succede quando l’agency umana all’interno di questi processi immaginativi ed emotivi viene sostituita dall’agency artificiale di un sistema di IA.
Come può la doppia finzione insita nell’ecfrasi – la descrizione finzionale di una rappresentazione – destinata a lettori e lettrici umane, essere comparata con un testo di istruzioni destinato a un programma? Con sottili argomentazioni in equilibrio fra la storia dell’Intelligenza Artificiale, la linguistica, la logica, il comportamento, Verdicchio riconosce nella scrittura di prompt (prompt engineering) un tipo di talento che, se non può certamente essere definito letterario, deve saper tradurre l’immagine mentale desiderata nel linguaggio, nella sintassi e nel modello organizzativo del sistema di Intelligenza Artificiale. Il processo di affinamento che porta dal primo tentativo al risultato, attraverso modifiche della richiesta, regolazione, scelta di nuovi termini e suggerimenti, racchiude nuove dimensioni del rapporto fra parole e immagini, filtrato da algoritmi e grandi quantità di dati, ma sempre in qualche modo riconducibile al desiderio di tradurre vicendevolmente l’esperienza del vedere e quella del leggere e ascoltare.
Un aspetto arduo da comprendere di questi meccanismi riguarda poi il così detto spazio latente, “uno spazio matematico non percepibile dall’esperienza umana, visualizzabile tramite tecniche di rappresentazione basate su riduzioni matematiche” e “in grado di fornire informazioni non ovvie, di rivelare relazioni non visibili tra i dati e di offrire una capacità interpretativa avanzata” (P. De Gasperis). Secondo l’artista Mario Klingemann, nello spazio latente, “proprio come nel nostro cervello”, media diversi vengono trasformati l’uno nell’altro e lavorare con gli spazi latenti sarà uno dei talenti più versatili che si possano acquisire (M. Klingemann, Latent Talent, A*Desk, 13/3/2023).
Sulla base di queste osservazioni, la figura di Giovan Battista Marino si presenta come un prezioso caso di studio: per quelle lettere che danno ai pittori indicazioni contestuali e dettagliate, con rimandi interni allo stile dell’interlocutore e richiami esterni a opere comparabili da tenere a modello; per la qualità della sua scrittura “figurativa ben oltre la normativa imposta dal genere ecfrastico”; per le tracce del suo modus operandi scrittorio, che metabolizza immagini viste, descritte, commissionate e in cui le fonti figurative “non vengono mai dichiarate e finiscono nel rimpasto di una macchina letteraria che, per un ventennio, rielabora tutto” (Tomei, catalogo, p. 60).
Macchina letteraria che traduce immagini e lavora perché una rete di agenti ne generino altre, immettendole a loro volta nel ciclo della trasformazione.
Poesia e pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la “meravigliosa passione”, a cura di Emilio Russo, Patrizia Tosini, Andrea Zezza, con Beatrice Tomei, Roma, Galleria Borghese, novembre 2024-febbraio 2025, catalogo Officina Libraria, Roma 2024.
Immagini: Prima edizione delle Rime, Venezia 1602; La Galeria (entrambi Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, riprodotti nel catalogo della mostra p. 226).
AS