L’emergenza Covid-19 modifica giorno dopo giorno il modo di fare lezione, di condividerla e di prepararla (ne parliamo qui). Vincoli diversi da quelli abituali chiudono tante possibilità, ma anche ne fanno emergere altre, che magari in tempi di liberi spostamenti fra biblioteche, aule, librerie, archivi, non avremmo preso in considerazione.
Un piccolo esempio.
Per il corso magistrale di Storia dell’arte (Sapienza Roma), sto tenendo delle lezioni a distanza sul tema dell’arte contemporanea e del gioco.
La lezione del 12 marzo 2020, dedicata a Marcel Duchamp, ha ripercorso un episodio di gamification organizzato per la mostra Duchamp. Re-made in Italy del 2013 alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Una serie di attività con il pubblico – ispirate alle opere in mostra – cercavano di suggerire alcuni dei dispositivi ludici delle opere dell’artista francese (anagrammi, rebus, contrèpeterie, palindromi ecc.), coinvolgendo i visitatori in sfide personali e di gruppo. Il titolo di quel pomeriggio di gioco in Galleria era Tu m’inviti, e faceva riferimento al quadro Tu m’ di Duchamp, realizzato nel 1918 e conservato ora nella Yale University Art Gallery (New Haven, Conn.). Nel sito del museo si legge una sintetica ed efficace presentazione del dipinto, realizzato per la collezionista Katherine Dreier, e divenuto col tempo una palestra di interpretazioni e di letture.
Ultimo quadro su tela dell’artista francese, Tu m’ mette in scena le ombre di alcuni suoi celebri ready-mades; una fila di campioni di colore in forma di rombi; una manina con l’indice puntato (dipinta da un pittore di insegne); un taglio trompe-l’oeil nella tela suturato da una vera spilla; un vero scovolino da bottiglia che sporge verso l’esterno, lasciando a sua volta un’ombra sul quadro e nella sala.
Considerato come un ragionamento sull’arte pittorica, sulla prospettiva, sulla rappresentazione, sull’imitazione, sull’illusionismo, sui confini fra le due e le tre dimensioni, questo dipinto enigmatico (Puzzle upon puzzle, lo definisce una monografia) lancia un’esca sin dal suo titolo.
Forma abbreviata dell’espressione “Tu m’emmerdes” (“Tu mi scocci”) o “Tu m’ennuies” (“Tu m’infastidisci”), la frase – di cui leggiamo solo l’incipit – è considerata una sorta di commiato di Duchamp dalla pittura su tela, a cui non si sarebbe più dedicato. Ma è anche un invito allo spettatore a integrare il titolo con il “verbo che si vuole a condizione che cominci con una vocale” (Subrizi, Laterza 2008).
In questo articolo di Susan Barbour, Duchamp’s Long Shadow. The Secret Meaning of Tu m’, si propone, non senza un risvolto erotico e concettuale, “Tu m’excite”:
Insomma, mentre invitavo studenti e studentesse a completare il titolo ragionando sul possibile soggetto (“Tu m’incanti”, “Tu m’illudi”… ), ho provato a verificare come la funzione di completamento di Google proseguisse la frase.
Nell’immagine si vedono le risposte: la più ripetuta è il primo verso di un sonetto di Guido Cavalcanti, il poeta fiorentino amico di Dante, “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio”.
Il sonetto è l’VIII nell’edizione delle Rime a cura di Domenico De Robertis (Einaudi, 1986): Tu m’hai sì piena di dolor la mente
Nel commento si sottolinea l’appello con il “Tu” alla donna e “la condizione di sbigottimento e di morte, implicante al solito l’abbandono del cuore da parte dell’anima e delle facoltà vitali, con conseguente riduzione d’ogni manifestazione fisica a quella d’un automa”.
Ora, se si vanno ad aprire le risposte su Google, ci si accorge che la frequenza delle occorrenze è dovuta alla ricerca di parafrasi del sonetto da parte di studenti di scuola superiore. Si tratta di un dato statistico e contingente, certo, che però fa scattare l’ipotesi di un collegamento: e se Duchamp, colto bibliotecario plurilingue, avesse letto e memorizzato l’incipit del componimento di Cavalcanti?
In francese (cito da una edizione moderna) si legge:
Tu m’as si rempli l’esprit de douleur / que l’âme s’empresse de partir (Imprimerie Nationale, 1993, a cura di Christian Bec).
Al principio del Novecento, Cavalcanti si trova poi al centro dell’interesse del poeta statunitense Ezra Pound, che dal 1910 lavora alla traduzione dei sonetti e delle ballate, pubblicata nel 1912: Sonnets and Ballate of Guido Cavalcanti (Stephen Swift & co, London) con una introduzione che illumina il suo metodo di accostamento e resa anche sonora del testo originale (THOU fill’st my mind with grief so populous / That my soul irks him to be on the road).
Quando sarà possibile di nuovo muoversi fra biblioteche e archivi, la ricerca potrà proseguire, per verificare se e quanto Duchamp conoscesse Cavalcanti – in italiano, in francese, nella versione di Ezra Pound (sia Pound che Duchamp sarebbero stati ritratti da Man Ray, nei primi anni Venti). E per indagare le possibili affinità e trasmigrazioni delle concezioni di amore, eros, spirito (scandagliati da Giorgio Agamben, Stanze 1977) dalla cultura medievale al pensiero infrasottile di Duchamp.
Ma intanto un nesso fra l’artista francese e il poeta fiorentino è acceso dai suggerimenti di Google, stabilito dalle interrogazioni delle persone che li alimentano creando masse di dati collegati fra loro. E se alcuni utenti disattivano la funzione di completamento per motivi di privacy, per altri essa è una forma di verifica di informazioni e uno spunto di gioco, anche social, fra statistica, serendipity e big data.
AS