Chi avrebbe mai detto che si poteva studiare l’arte anche tramite i big data.
Con il termine big data si indica un’enorme quantità di dati, riorganizzati attraverso le più svariate griglie di criteri, e tra i più autorevoli pionieri nel mettere insieme big data e cultura delle immagini c’è certamente Lev Manovich. Per dare un esempio di quello che fa, ha studiato miglialia di selfie che si postano su Instagram ogni giorno e li ha raccolti nel sito Selfiecity; qui si possono riorganizzare per categorie (città, età, occhiali), parole chiave, criteri a scelta, utili per filtrare questa enorme e altrimenti indistinta massa di immagini e spendibili in uno studio sociale, storico, antropologico, ecc.
Manovich ha pubblicato nel 2011 i risultati grafici di analisi condotte sui dipinti di Van Gogh, mettendo a confronto i colori utilizzati a Parigi con quelli impiegati ad Arles, in Provenza.
Sulle coordinate di posizione geografica da un lato e saturazione e brillantezza cromatiche dall’altro, i dati esprimono informazioni che, opportunamente riassemblate, fanno emergere alcune verità ‘tecniche’: in questo caso scopriamo che non è stata solo la luce del sole del Sud ad influenzare lo stile di Van Gogh, ma che la difficile reperibilità dei colori fuori dalla capitale e le ristrettezze economiche hanno determinato la scelta dei materiali e di conseguenza l’adozione di tonalità diverse.
Lo studio dei big data applicati alla storia dell’arte è un campo in grande espansione e Manovich ne è da molti anni il principale interprete. Oltre agli interessanti risvolti professionali di questa specializzazione, serve alla storia dell’arte per il nuovo approccio alla materia, un metodo di indagine possibile grazie alla immensa capacità computazionale dei nostri computer e device mobili. Come nell’esempio qui riportato, analizzare dati permette nuovi punti di vista sulla realtà vissuta dall’artista, con risultati che talvolta si discostano e tal altra avvalorano le teorie note sullo stile di Van Gogh.
MSB