Pointillisme. Quadri nei libri

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Non sempre il bello resiste alla vicinanza. Spesso, anzi, si corrompe, si sfilaccia; si spampana, come un fiore sul punto di perdere i petali. Da lontano non te ne accorgi, da vicino, però… Ti sembrerà strano, ma ho provato una sensazione del genere davanti ai quadri di certi pittori, i puntinisti, soprattutto. Non lo so: più mi avvicino, più mi sembra che il fascino della poesia si incrini. Un passo dopo l’altro, lo “spirito di finezza” svanisce e lascia il posto a quello “di geometria”: non un gran guadagno, se posso essere sincero. Mi viene in mente un quadro, in particolare: Seurat, mi pare. Credo di averlo visto con la Rina, a Chicago.
Sono passati tanti anni, è vero, ma non l’ho dimenticato. Il nome non lo ricordo, ma ricordo che è un assolato pomeriggio di domenica e una discreta folla si assiepa sull’argine ombreggiato di un fiume in cerca di un po’ di refrigerio. Me lo ricordo perché – oltre a essere un gran bel quadro – racconta domeniche pomeriggio piuttosto simili ad alcune di quelle che la Rina e io abbiamo trascorso, immersi nel verde dei pioppi, lungo gli argini del Po. Appena entrai nella sala e lo vidi, mi fece notevole impressione. Era grande e bello ed emanava una luce avvolgente e rassicurante: una gradevole fragranza di serenità. A mano a mano che mi avvicinavo, però, mi rendevo conto che qualcosa di quella fascinazione cominciava a perdersi: l’immagine si sgranava, come se non fosse stata dipinta su tela, ma su una garza a maglie strettissime. Più che un quadro, sembrava un puzzle composto da migliaia di tessere minuscole: punti, praticamente. Vittorio, naturalmente, mi spiegò che era proprio da quella tecnica innovativa che lo stile di Seurat prendeva il nome. I puntinisti si chiamavano così perché non mischiavano i colori, li creavano sulla tela, accostando piccole macchie di colori diversi. E così il blu – ad esempio – veniva fuori mettendo un puntino giallo vicino a uno verde: toccava all’occhio di chi guardava, non alla mano dell’artista, creare quel colore, quasi fondendo quei due puntini. Una tecnica rivoluzionaria, non c’è dubbio. E anche un’intuizione geniale, bisogna riconoscerlo, In fondo l’arte, come l’amore, si fa in due: chi la crea e chi la ri-crea, godendone e interpretandola.

Giuseppe Sgarbi, Lei mi parla ancora, La Nave di Teseo, Milano 2021

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