Il docente entra in classe spingendo un alto carrello grigio. Sembra un assistente di volo che vi sta per servire da bere, invece apre il misterioso mobile e tira fuori tablet e iPad che distribuisce agli studenti.
Succede nelle scuole che hanno adottato per la didattica i cosiddetti carrelli mobili, apparecchiature trasportabili da un’aula all’altra, dotate di:
- alloggiamenti con un certo numero di dispositivi tablet o iPad (n. 10)
- 1 notebook o MacBook Air
- 1 proiettore a focale corta
- 1 stampante cloud
Una strumentazione che permette di trasformare qualunque classe in un laboratorio digitale. Quando non utilizzati per la didattica, i carrelli vengono lasciati in ricarica tramite un cavo di alimentazione, con un timer per la ricarica settimanale.
I carrelli nelle foto (scattate da Fabio Palmia, animatore digitale dell’Istituto Angelo Frammartino di Monterotondo, Roma, che ha contribuito a questo post) sono stati acquistati dalla nostra scuola con i fondi Pon – Fondi strutturali europei per l’implementazione della didattica digitale e sono in via di adozione nelle classi. Per il loro utilizzo si organizzano corsi ad hoc per i docenti.
Ne parliamo qui perchè l’uso dei carrelli risolve una difficoltà che si può riscontrare in aula durante la didattica che fa uso di risorse multimediali: il digital divide.
Per digital divide si intende il divario che esiste tra coloro che hanno accesso a internet e alle risorse digitali e coloro che invece, per scelta o per impossibilità, non hanno questo accesso. Una infografica su Medium realizzata da Sheraz Khan, Daniel Grieco, Robin Ha, Spiros Xanthios con Adobe Illustrator presenta un’efficace sintesi dell’argomento.
L’origine di questo termine è legata al campo della didattica, come spiega questo articolo su Agenda Digitale:
Il 29 maggio 1996, l’allora Vice-Presidente Al Gore dell’amministrazione Clinton utilizzò l’espressione “digital divide” per indicare il gap esistente fra gli information haves e gli havenots nell’ambito del programma K-12 education (“Kindergarten through 12th grade”).
In classe il digital divide si può sperimentare quotidianamente. Immaginiamo di organizzare un lavoro in gruppo, durante il quale – sotto la dovuta sorveglianza del docente – si autorizzano gli studenti all’uso del proprio device mobile per approfondimenti e ricerche collaborative attraverso la pratica del cosiddetto Byod (Bring your own device, acronimo oggi superato dalla sigla BYOx). A questo punto si crea una situazione tipica: alcuni studenti avranno un cellulare/tablet di ultima generazione, con velocità di navigazione 4G e dati illimitati, e altri no, saranno senza smartphone o non avranno il traffico dati o avranno finito i giga. Cosa fare?
Il Byod è una pratica che nasce per aumentare l’alfabetizzazione informatica, per un ampiamento dell’uso delle potenzialità del proprio device (non solo messaggi e telefonate), e per sopperire alla mancanza nelle scuole di strumentazioni digitali e di una connessione wifi aperta (difficilmente applicabile per questioni di sicurezza e privacy degli alunni) e capace di sostenere numerose connessioni simultanee. Il Byod è una risorsa importante in quel processo di “consapevolezza del valore aggiunto delle tecnologie ad ‘aumentare la mente’, step intermedio per la formazione, mai chiusa, dell’identità digitale”.
Dunque sì al Byod, ma gestito affinchè non si accentuino situazioni di disparità economica o culturale tra gli alunni. E qui ci vengono in aiuto i carrelli di cui sopra.
Le loro potenzialità nella didattica sono enormi, dall’uso delle risorse multimediali e dell’ebook alla creazione di lavori cooperativi e condivisi. Nella mia esperienza i carrelli svolgono altresì un ruolo chiave sotto l’aspetto dell’inclusione. Con la loro adozione si può:
- abbattere la condizione di digital divide di partenza fra gli alunni (e a pensarci bene, in alcuni casi anche tra alunni e docenti!)
- organizzare gruppi di lavoro senza essere condizionati dalle difficoltà logistiche e organizzative degli spostamenti pomeridiani, laddove sia un problema il raggiungimento della casa di un compagno per svolgere insieme il compito assegnato
- sperimentare una didattica maggiormente inclusiva per i ragazzi con Bes (bisogni educativi speciali) o disabilità, che possono avere difficoltà a socializzare con i compagni, a frequentarli fuori dall’orario scolastico, o – più spesso – che trovano nell’uso di strumentazioni informatiche quell’elemento di novità che alimenta la motivazione e permette di gestire un linguaggio per loro talvolta più familiare di quello scritto od orale.
Un’ultima riflessione. Il digital divide può essere interpretato anche in maniera inversa rispetto al significato che normalmente ha. E’ quello che succede quando una scuola si dota di apparecchiature di ultimissima generazione su cui fare didattica all’avanguardia, macchine sofisticate che gli studenti potrebbero però non trovare nei luoghi di lavoro dove andranno ad applicare le loro competenze digitali, risultando più formati rispetto a quello che il mercato del lavoro è in grado di offrire in quel momento o in quel territorio. Tutto sommato un problema che è già una bella fortuna avere.